La Sicilia insorgente

La Sicilia insorgente

Per la Sicilia non c’è davvero nulla da attendersi dagli altri. La politica si dà come semplice articolazione di un’azione che ha centro altrove. L’indipendenza, prima che una scelta, da questo punto di vista, è atto necessitato dalle circostanza. Nessun idealismo, dunque, ma tanta, tanta, materialità

Il contrario dell’indipendenza  è la dipendenza da poteri che si collocano fuori da un orizzonte di prossimità, non un mondo senza frontiere. L’indipendenza è un progetto d’insorgenza. Ha un piano, ha una sua soggettività, ma non prevede un prima e un dopo. Non è atto che avviene per tentativi ed errori. Non ha un ideale ordine da istituire. E’ processuale. Crea istituzioni che nascono nel tempo lungo dell’insorgenza. Non si attesta dal lato della desistenza, né insegue un potere costituente che una volta trasformatosi in potere costituito si dia già come ordine della società, ad essa nemico, nella forma stato. Si tratta di riconoscere le comunità, accompagnarne il loro istituirsi nell’insorgenza. Basta questo per fare i conti con chi accusa di sovranismo il percorso dell’indipendenza. 

La Sicilia non ha una borghesia indipendentista. Non è, dunque, possibile pensare di costruire un versante antagonista, il lato sinistro, sociale, di questo processo. Bisognerà fare tutto da soli. Se questo è un problema da un punto di vista tattico, in quanto espone di più, rende più fragili, attribuisce più responsabilità, è pur tuttavia un vantaggio da un punto di vista politico in quanto permette di adeguare tempi, modi e programmi del processo dell’indipendenza più aderenti alla critica al modello di produzione dominante e alle forme di dominio che si estendono fino alle pieghe più recondite della quotidianità.

L’indipendenza si dà dentro un processo istituzionale. Le persone, le comunità vivono dentro istituzioni, le istituzioni insorgenti e le istituzioni esistenti. Bisognerà costruire le prime e attraversare le seconde. Sono gli eventi che offrono le opportunità del cambiamento, ma, allo stesso tempo, le opportunità si costruiscono, si determinano, si favoriscono. Si dovrà consentire la possibilità di vivere esperienze di indipendenza. E’ nella realtà dei conflitti, nella formazione di un pensiero altro dalle forme dello sfruttamento, del dominio, che si formeranno le istituzioni indipendenti.

Miguel Abensour, nel suo La democrazia contro lo Stato, lo spiega bene: “L’azione politica di cui parliamo non avviene in un momento, ma è un’azione continuata che si iscrive nel tempo, sempre pronta a riprendere slancio in ragione degli ostacoli incontrati. Si tratta della nascita di un processo complesso, di una istituzione del sociale orientata verso il non-dominio, che si inventa in permanenza per meglio perseverare nel suo essere e dissolvere i contro movimenti, che minacciano di annientarla e di ritornare a uno stato di dominio”.

La promozione e la messa in rete di comitati che si battono in difesa del territorio, che se ne prendono cura, che sperimentano forme di autodecisione sui luoghi che si abitano significa già fare esperienza dell’indipendenza, significa non delegare ad istituzioni esterne il governo del territorio, ma farsene partecipi, assumersene la responsabilità. I comitati non sono semplicemente il luogo della resistenza. In essi si forma un punto di vista, si apre lo sguardo al futuro. Per territori come quelli siciliani ormai marginalizzati dai circuiti economico finanziari dominanti[1] i comitati diventano gli spazi d’azione nei quali si forma un pensiero attivo, produttivo, capace di immaginare un nuovo futuro, che rifiuta la dipendenza da decisioni prese altrove. I comitati sono il nucleo costitutivo delle nuove istituzioni territoriali.

L’attraversamento delle istituzioni (amministrazioni locali, università, scuole, ad esempio) è azione necessitata dal fatto che è lì che si svolge buona parte della vita degli abitanti dei territori. Quelle istituzioni sono terreno di battaglia che non si può eludere. Vanno vissute con spirito combattivo, senza alcun cedimento alle logiche di testimonianza, senza vittimismo, spostandole, per quanto possibile, nella direzione di un allargamento della possibilità decisionale delle popolazioni, di una difesa del pubblico, di una affermazione del vivere in comune. La crisi economica rende impossibile un comportamento meramente riformista. Ad esse si può oggi guardare senza il timore di restarne contaminati, non di più che restandone fuori. Possono essere attraversate facendone un punto di resistenza rispetto alle imposizioni esterne degli stati nazionali, degli organismi sovranazionali, delle procedure e le compatibilità che reggono oggi il governo dei territori. Lì dentro si può costruire un pezzo d’indipendenza. Chi le vive può farne esperienza.

Costruire le strutture del mutualismo (centri sociali, ambulatori popolari, palestre popolari, luoghi di aggregazione, teatri autogestiti, organismi sindacali) significa dare corpo all’autorganizzazione, fondare l’indipendenza, alludere a nuove istituzioni. Lungi dall’avere un carattere sussidiario rispetto alle inefficienze dello Stato, indipendentemente dalla possibilità che questi percorsi consentono di coprire spazi lasciati aperti dallo smantellamento del welfare, l’attività di mutuo aiuto è espressione autonoma del territorio. Forse questo è l’ambito più impegnativo perché impone una efficienza che sia capace di competere con ciò che una volta era il servizio pubblico e che adesso ha subito processi di privatizzazione, trasformazione in merce, subordinazione al mero calcolo entrate/uscite.

La creazione di laboratori territoriali capaci di gettare uno sguardo d’insieme, di connettere ambiti diversi, può consentire di costruire un discorso pubblico capace di competere con tutte le narrazioni che oggi occupano lo spazio politico. Senza alcun timore, senza alcuna prudenza, senza alcuna timidezza è possibile oggi dimostrare che tutte le opzioni politiche in campo sono nemiche dei territori, li oltrepassano, non ne assumono i bisogni. Per la Sicilia, in particolare, non c’è davvero nulla da attendersi dagli altri. La politica si dà come semplice articolazione di un’azione che ha centro altrove. L’indipendenza, prima che una scelta, da questo punto di vista, è atto necessitato dalle circostanza. Nessun idealismo, dunque, ma tanta, tanta, materialità. Nei laboratori territoriali si forma il pensiero del territorio, il progetto, la scommessa che sia possibile produrre e amministrare un territorio finalmente ricco.

La storia dell’uomo, poi, offre sempre finestre d’opportunità. Sono i momenti in cui si operano le rotture. D’altronde, davvero, non si può concedere nulla all’idea di un processo di costruzione su se stessi. Questa illusione, cui così facilmente si adagiano le organizzazioni militanti, rischia di essere una palla al piede, di non riconoscere mai l’affacciarsi del nuovo, di cogliere l’evento che si annuncia capace di dar vita a nuove istituzioni. In questo ci viene ancora in soccorso Abensour, citando, stavolta, Istincts et institutions, di Gilles Deleuze. Da questo punto di vista l’istituzione, per Deleuze, è un “sistema di anticipazione” che si oppone alla legge. Per il filosofo francese la differenza tra istituzione e legge è che “questa è una limitazione delle azioni, quella un modello positivo d’Azione”.

[1] Al fine di fotografare questa condizione Lanfranco Caminiti in Perché non possiamo non dirci “indipendentisti”, edito da DeriveApprodi nel 2018 cita il Rapporto economia e finanza dei distretti industriali, edito da Intesa San Paolo nel dicembre 2016, elencando i primi dieci posti per performance di crescita e produttività: 1. Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene, 2. Occhialeria di Belluno, 3. Salumi di Parma, 4. Vini dei colli fiorentini e senesi, 5. Mozzarella di bufala campana, 6. Legno e arredamento dell’Alto Adige, 7. Conserve di Nocera, 8. Dolci e pasta veronesi, 9. Meccanica strumentale di Bergamo, 10. Gomma del Sebino Bergamasco.

La Sicilia insorgente.

Condividi su:

Leave a Reply

Your email address will not be published.