Roby Manfrè era il più bravo di tutti noi. E anche il più coraggioso. E’ stato un simbolo e lo resterà per sempre. Ha arrampicato al tempo in cui si passava dalle vie dal basso agli spit. “Le placchete sono uguali da tutte le parti” mi disse più volte. Una frase che per i non arrampicatori non vuole dire nulla. Per chi non sa di alpinismo una parete è una parete. Si scala ed è bravo quello che sale dalla base alla vetta. Chi non arrampica che ne può sapere di tutte le cazzate che ci raccontiamo? Chiodata dall’alto, salita dal basso, on sight, run out, clean, trad, artificiale, resting …
Roby amava l’arrampicata tradizionale, anche se poi ha messo un sacco di spit (a mano, perché i trapani arrivarono solo nell’ultimo periodo), anche se poi, spesso, arrampicava sciolto. La verità è che con quella frase lui intendeva dire che se non hai il problema di trovare le fessure dove mettere i chiodi o le clessidre dove passare un cordino le pareti diventano anonime. I chiodi ad espansione puoi metterli dappertutto e le pareti perdono la loro unicità. Un po’ la differenza tra fare una crociera e una vacanza in barca a vela. Forse, meglio, la differenza tra un luogo dentro i circuiti dell’industria turistica e uno da scoprire.
Il giorno in cui se n’è andato, scalando senza spit e corda, come amava fare sulle sue pareti, è stata la fine di una generazione di scalatori. Da allora è cambiato tutto. La storia dell’arrampicata in Sicilia si divide tra quelli che hanno conosciuto Roby e tutti gli altri. Quelli che lo hanno conosciuto hanno qualcosa che li accomunerà per sempre. Hanno incontrato qualcosa che agli altri il destino non regalerà mai.
Ricordo che ebbi una reazione strana quando Giuseppe, al telefono, mi annunciò la morte di Roby. Non riuscivo a crederci. Mi venne fuori un sorriso isterico. Esclamai incredulo: “Che storia è mai questa?” Qualche mese prima Giuseppe mi aveva comunicato che Maurizio Lo Dico non c’era più. Poi era stata la volta di Giuseppe Cutrona. Non ne potevo più. Non poteva essere.
Sembrava che la sorte si fosse accanita contro quello sparuto gruppo di giovani che si dedicava, totalmente sconosciuto, ad una pratica decisamente eccentrica rispetto al proprio territorio. Il nostro, infatti, non è stato un alpinismo di punta, ma un alpinismo di scoperta quello sì. La nostra tradizione l’abbiamo inventata noi. Non abbiamo vissuto un nuovo mattino perché non ce n’era stato uno prima. Ricordo che al funerale di Roby, Marco, toccando una pietra, disse: “ogni volta che toccheremo una roccia è te che toccheremo”. Confesso che allora mi sembrò un po’ retorico. Oggi posso dire che aveva ragione. Non c’è volta che arrampico che non ci penso. Non c’è volta che parliamo di rocce, pareti, vie che non parliamo di Roby.
*nella sezione Racconti sono raccolte 8 salite fatte con Roby, già pubblicate in Alessandro Gogna, La pietra dei sogni, Milano, 2014
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