Indipendenza versus dissesto

Indipendenza versus dissesto

L’indipendenza dei territori è scelta determinata dalle circostanze. Essa deve essere prioritariamente indipendenza dalle strutture della rappresentanza politica. Essa deve essere capacità di autogoverno, processo democratico nel quale ci si riappropria della possibilità di decidere del proprio futuro. Liberarsi dal debito significherà liberarsi dalle condizioni che lo hanno generato.

Il dissesto finanziario degli enti locali è il risultato dell’aggressione subita dai bilanci pubblici da parte della rappresentanza politica e dell’imprenditoria ad essa collegata. Si tratta di un processo storico. Il dissesto si dà come accumulo nel tempo di debiti non onorabili. Per questo la colpevolizzazione dei cittadini è in grande misura infondata, se non per la responsabilità di avere scambiato garanzie con consenso (il processo clientelare). Così come infondata è la narrazione del giusto sacrificio imposto alla collettività per pagare i “fornitori”, figure mitologiche che rappresenterebbero le piccole aziende radicate nel territorio, giacché gran parte del credito è detenuto da pochi contractor cui sono state appaltate grandi opere pubbliche e grandi eventi, società pubbliche o pubblico-private a comando politico e importanti studi professionali legati ai partiti Al sud oggi questo fenomeno esplode a causa della fine della politica dei trasferimenti e della fiscalità solidale. I territori meridionali, in larga misura marginali rispetto ai circuiti finanziari e produttivi, si trovano, così, nell’impossibilità di finanziarsi da soli i servizi pubblici e, contestualmente, fare fronte al debito accumulato.

Per comprendere le ragioni del dissesto degli enti locali va data, infatti, una lettura politica dell’art. 244 del Testo Unico degli Enti Locali secondo il quale non ci sono più le condizioni di un riequilibrio del bilancio neanche attraverso misure straordinarie contenute in un Piano di Riequilibrio gestito dai Comuni laddove questi non riescano ad assolvere ai servizi indispensabili oppure non riescano a pagare i creditori. Ai Comuni si chiede, insomma, di farcela imponendo l’aggravio di servizi ormai pagati per intero dai cittadini e contemporaneamente di applicare un regime di austerità che consenta di assolvere ai debiti fuori bilancio o alle perdite delle società partecipate. Una cura da cavallo, cioè, cui i territori meridionali non possono  riuscire a far fronte, evidentemente, a causa del loro progressivo impoverimento. Quando, poi, amministrazioni irresponsabili, che difendono solo la loro legittimità legale a comandare, negano l’evidenza dei fatti, non riconoscendo lo stato di dissesto, conducono gli enti in condizioni sempre più deficitarie, spolpando la collettività senza alcuna possibilità di successo.

Accade così, ad esempio, che al Sud, usato in precedenza quale mercato per le aziende del Nord, vengono succhiate le residue risorse per pagare le società costruttrici di opere pubbliche con sede nel nord del paese, in un contesto nel quale si vede l’accumularsi di investimenti nelle regioni meridionali da parte di  multiutility partecipate da Comuni settentrionali (la A2A ne è l’esempio più importante), così che profitti estratti ai territori meridionali finiscono per finanziare i servizi pubblici di città come Brescia o Milano. Questi fenomeni uniti ad una emigrazione giovanile meridionale sostenuta, non soltanto nel periodo di formazione ma anche in quello lavorativo, dalle famiglie d’origine (essa si traduce evidentemente in una mera estrazione di ricchezza) definiscono una strategia sociale ed economica di ordine coloniale.

In un quadro di tal genere lo Stato assume il compito di mero soggetto regolatore dei vincoli imposti ai territori ai quali viene negata ogni possibilità di benessere e, questi, sempre più marginalizzati, vengono al massimo pensati come luoghi da usare per impianti inquinanti, basi militari e carceri a cielo aperto per migranti. Per il Sud lo Stato ha pensato un futuro desertificato per una popolazione sempre più impoverita. Gli abitanti non ne ricevono, dunque, più alcun vantaggio e l’indipendenza dei territori appare come scelta necessitata dalle circostanze. Essa deve essere prioritariamente indipendenza dalle strutture della rappresentanza politica poiché da queste non c’è nulla più da aspettarsi. Essa deve essere capacità di autogoverno, processo democratico nel quale ci si riappropria della possibilità di decidere del proprio futuro. Liberarsi dal debito significherà, dentro questa prospettiva, liberarsi dalle condizioni che lo hanno generato.

 

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